Un cappello per tutti
Un racconto del Cappellaio Matto per augurare a tutti voi
Buone Feste di Natale!
“Un cappello per tutti!”
Quel giorno il cappello scivolava di lato come se volesse fuggire dalla mia testa.
Lo tenevo per orgoglio e tradizione: mio nonno portava il cappello, mio padre sembrava esser nato col cappello. Io, di conseguenza, ero stato abituato a portare il cappello sin da subito.
Queste son cose che crescono con te. Alla fine non puoi sfuggire ed io non riuscivo, infatti: senza cappello mi sentivo nudo più che senza molti altri tipi di indumento.
Però quel giorno il cappello sembrava non volere me. O forse era il Libeccio, dispettoso, che si infilava da ogni lato disponibile della mia testa – forse perfino dalle orecchie – e che voleva liberarmi del mio amuleto. Così mi aggiravo per le strade di Livorno tenendo strette le falde con due mani. Sembravo una brutta copia dell’Urlo di Munch. Ma con il cappello.
Ricordo allora di essermi diretto quasi inconsciamente verso Via Ricasoli dove si trovava il negozio che aveva visto nascere tutti i cappelli di famiglia: Rinaldelli.
Camminando con quella postura innaturale e buffa mi rendevo conto per la prima volta che una parte importante di me sarebbe potuta volare via. Di conseguenza mi costrinsi a guardare gli altri per vedere se avevano lo stesso mio problema.
Vedevo sciarpe, cappucci, paraorecchie ma pochi, pochissimi cappelli. Allora il mio pensiero corse ai tempi in cui, bambino, uscivamo in famiglia tutti assieme nei giorni di festa. Ognuno di noi vestiva gli abiti buoni. Ognuno di noi aveva il cappello.
Mio padre aveva il suo da tempo. Non se ne liberava mai. Lo portava con fierezza al lavoro, alle manifestazioni, agli eventi culturali, allo stadio. Lo prendeva in mano con circostanza quando doveva annunciare cattive notizie o quando la timidezza di fronte all’interlocutore gli faceva abbassare lo sguardo. In quei casi lo straziava con la mani: era il suo strumento di sicurezza, quasi cercasse di trarre forza dai suoi tessuti, dalla sua struttura. Altre volte lo avevo visto lanciarlo in aria con gioia, come quando ebbe la notizia che non avrebbe perso il lavoro o come quando mia sorella si sposò e la sua gioia quasi forzata nascondeva forse quel piccolo dolore di padre che vede la sua bambina andare tra le braccia altrui.
Mia madre, invece, aveva alcuni cappelli che utilizzava in occasioni diverse: il cappello era il sostituto che mio padre aveva scelto per lei come dono rispetto a gioielli e cose preziose che non poteva permettersi. Ogni qual volta un compleanno, un Natale o un anniversario si affacciavano al tempo, lui l’accompagnava in negozio a provare e scegliere un nuovo cappello. Mia madre aveva un volto bellissimo, appoggiato su un collo infinito. Attorno a quella grazia non si avvolgevano collane o catenine preziose ma quella nudità importante annunciava allo sguardo di chi stava di fronte che era più su che si doveva guardare, proprio là dove gli occhi incurvavano con ciglia di cervo verso l’alto. E lì si trovava il prezioso che chiosava tutto: il cappello.
Io avevo invece un berrettino senza pretese che parava le orecchie nelle giornate più fredde e che mi scaldava le idee, molte idee, in attesa che crescessero con me.
Poi arrivò il giorno della mia prima volta al lavoro. Mi ricordo di aver avuto poco meno di 18 anni e che mio padre mi volle accompagnare a tutti i costi in bicicletta per ostentare lungo la via il suo sorriso che certificava l’orgoglio.
Quel giorno, di mattina presto, mentre io cercavo affannosamente di eliminare quei pochi peli che timidamente cominciavano ad affacciarsi sul volto, mio padre bussò alla porta del bagno chiedendomi di raggiungerlo in soggiorno una volta che fossi stato pronto.
Così feci. Entrai nella stanza mentre ancora cercavo di controllare che la lunghezza delle maniche della camicia corrispondesse a quella della giacca. Ricordo che mi fece un discorso un po’ intricato, a dire il vero non ne ricordo le parole ma l’enfasi, l’energia. Insomma cercò di mettermi sull’avviso rispetto al mondo del lavoro; credo che mi abbia detto di dare più di quanto mi sarebbe stato chiesto, di essere rispettoso, di provare a divertirmi in quel che facevo, di dare il massimo e di non aver paura della fatica a fine giornata, perché tutto sarebbe ripagato dalla riconoscenza. O qualcosa del genere. I miei occhi però erano già da tempo scivolati su un involucro strano che teneva alle sue spalle. E forse avevo già capito.
Alla fine del suo discorso infatti aprì la scatola e mi porse il mio nuovo cappello. Il mio primo, vero, cappello da uomo.
Che poi è questo qui che forse stufo di me sta cercando di farsi portar via dal vento. Sempre quello, vi chiederete?
Ovviamente ne ho avuti altri nella vita. Ma quello rappresenta per me un ricordo troppo importante perché me ne liberassi. Ho finito per tornare decine di volte in questi anni da Rinaldelli per far sì che lo aggiustassero come potevano in maniera che potesse ancora accompagnarmi.
E così sto facendo di nuovo. Forse non è soltanto colpa del vento, ma del tempo. Il mio cappello ha bisogno di nuovo di una aggiustatina in maniera che torni ad abbracciare la mia testa come ai bei tempi. O forse sto cambiando io più del cappello, magari mi sto rimpicciolendo con il tempo, così come fanno le aspettative quando gli anni si fanno numerosi.
Entrando fui accolto dalla solita eleganza. I cappelli da signora che arredavano le pareti erano bellissimi, come fermi nel tempo ma anche moderni.
Il mio cappello fu preso in carico da Alessandra mentre io mi guardavo attorno, evitando gli specchi per non scoprire quanto tempo era passato dalle prime volte che ero andato lì per trovare qualcosa di nuovo per me o per mia moglie.
Mi trovai nella malinconia del pensiero che questa tradizione del cappello, sacra alla mia famiglia, si era andata un po’ perdendo nel tempo, sostituita da mode diverse, forme più ardite dove l’acconciatura dei capelli, spesso aggressiva, doveva svolgere il compito che prima condivideva con il copricapo.
Poi il vento calò quasi d’improvviso, fuori. Il freddo, senza il supporto dell’aria in movimento, lasciò spazio ad un nevischio insidioso e fitto che era davvero insolito dalle nostre parti.
Ringraziai Alessandra dopo essermi accertato che tutto fosse tornato come prima e uscii per tornare a casa. Gli occhi si abituarono con lentezza al panorama insolito delle strade di Livorno spolverate di freddo. Il nevischio bruciava gli occhi che, chiusi a fessura, non riuscivano a riconoscere i luoghi dove spesso passeggiavo.
Così, d’un tratto, a pochi giorni dal Natale, mi parve di essere finito indietro nel tempo, in una città che non ricordavo più. Attorno a me figure frettolose si dirigevano per le ultime compere in centro. I loro bambini, trascinati contro voglia per mano, giocherellavano con le scarpe sulla neve sparsa e acquosa. E ognuno, ogni donna o uomo che incontrassi, aveva un cappello.
Fu un’incredibile giostra di colori e di forme che si stagliavano nel baluginio della neve. Un’apoteosi di incredibile grazia e bellezza. Fu quasi come se l’umanità avesse deciso con quel gesto di riprendersi il senno, o così pensai stupito.
Bombette, baschi, colbacchi, coppole, fedora. Pure qualche paglietta. Con quel freddo. Così lontana nel tempo.
Era forse il modo in cui il mondo aveva deciso tutto ad un tratto di riprendersi un destino? Di dare un tetto ai propri pensieri in maniera che tornassero a volare liberi e non condizionati?
Non lo so e forse non lo saprò mai. Ma tutto sembrava tornato al suo posto, come se una società con il cappello rappresentasse il ritorno della dignità e dell’orgoglio.
Così tornai a casa più leggero, rassicurato da un fatto prezioso che vorrei che capiste: c’era di nuovo un cappello, un cappello per tutti, a covare i nostri sogni.